lunedì 10 gennaio 2011

Hereafter.

Tre storie di morte si intrecciano in una sola storia di vita in uno dei film migliori degli ultimi tempi. Chiariamolo subito: Hereafter non è un film di genere horror, ma veicola immagini  stimolanti attraverso un uso leggero e intelligente di un tema fantastico. Inoltre, non dà spiegazioni o suggerimenti su un argomento tanto abusato quanto la vita dopo la morte, e non prende posizione. Infine, come qualunque film che non sia soltanto un prodotto commerciale, non solo non dà affatto risposte, ma al contrario stimola nuove domande.  Ora, se avete intenzione di vedere questo film, e chi vi scrive ve lo consiglia, cliccate da qualche altra parte (potreste fare un giretto qui, o qui, per esempio, ma sono solo suggerimenti), e smettete di leggere questo post.
State continuando a Vostro rischio.


Un’affascinante e famosa telegiornalista parigina, sorpresa in spiaggia dallo tsunami del 2005, sperimenta uno stato di pre-morte e si convince che esiste un “aldilà”; un ragazzino londinese perde il suo gemello e tenta disperatamente di mettersi in contatto con lui ricorrendo a sedicenti maghi e veggenti; un giovane sensitivo americano tenta di abbandonare per sempre il ricorso al suo “dono”, che gli ha finora precluso la possibilità di una vita normale.
Tre storie, raccontate con disarmante e commovente semplicità, fortemente incentrate sulle emozioni vissute dai loro protagonisti, sulle loro debolezze e i loro desideri, in breve, sulla loro umanità. Personaggi positivi, ma incostanti e imprevedibili, tratteggiati con sobrietà e delicatezza, che conducono tre vite completamente diverse; tre storie, quindi, del tutto diverse, ambientate in luoghi diversi, ma accomunate tanto dalla profonda solitudine dei rispettivi protagonisti quanto dalla loro voglia di combatterla e superarla.
La narrazione è leggera, leggerissima, il tempo passa veloce mentre si è rapiti da immagini essenziali e dirette, che trasferiscono emozioni altrettanto essenziali e dirette, senza fronzoli, senza eccessi e senza sequenze inutili; in questo film, in effetti, ci sono solo immagini necessarie; non se ne potrebbe risparmiare una, e certo sarebbe un peccato perdere i picchi di autentica poesia della vicenda del piccolo inglese, o il momento di puro erotismo fra due studenti di un corso di cucina tenuto da un improbabile chef italo-americano.
Ma veniamo al punto: di fronte a un tema come quello in questione è legittimo il sospetto che si intenda far eco a poco originali storie avvinghiate alla pia speranza di una qualche forma di esistenza “successiva” a quella che si conduce in questo mondo. Per fortuna, Hereafter sfugge abilmente a una simile tara, e non scivola nel luogo comune. Ma mi corre l’obbligo di avvisare che il mio punto di vista sull’opera è estremamente soggettivo, ed è probabile che chi arriverà in fondo a questa recensione non sia d’accordo con me, e giudichi eccessiva la portata delle mie congetture in merito al significato delle immagini che presenta. Ma questo è un rischio che ho tutta l’intenzione di correre.
Di questo film si è detto che si tratta di un’opera profondamente laica. La mia opinione su questo pur fondamentale punto è ambigua, come (piacevolmente) ambiguo ho trovato che sia il film stesso.
La laicità di Hereafter sarebbe intrinseca alla totale assenza di Dio e della Religione.
E questo è verissimo: in questo film non c’è mai una chiesa, né una sinagoga, non c’è alcun riferimento a ipotesi di un aldilà cristiano, musulmano o buddista. Non ci sono preti, né sciamani, né rabbini. Nessuno prega, nessuno invoca dèi, nessuno leva gli occhi al cielo nemmeno per un istante (a dire il vero c’è un funerale, ma ci sembra un passaggio obbligato, oltre che un’occasione per sottolineare un certo cinismo clericale). Tutte le ipotesi sull’aldilà sono state filtrate attraverso un sanificante setaccio che ha opportunamente trattenuto qualunque classificabile contaminazione ritualistica. E quest’opera di filtrazione è così ben fatta che non la si nota nemmeno: è un po’ come quando ti chiedono “perché non credi in Dio?”, e la risposta giusta è semplicemente “Non si cerca la ragione per cui non si fa qualcosa, ma semmai del perché invece la si fa. Dunque, perché tu credi?”. Questo film in effetti non ha abolito la religione e gli dèi, ha semplicemente descritto l’essere umano nella sua interezza. E questa interezza non ha bisogno di un dio. Punto.
Ma.
Con il mio “ma” intendo dar conto dell’uso, alcune righe sopra, dell’attributo di “ambiguità”. Pur in questa evidente e gradevole mancanza di religione, qualunque ipotesi di esistenza di un “aldilà” è segno di una “fede” in qualcosa di altro, di ultra-terreno, di alieno all’umanità. Qualcosa che, appunto, esula da quella interezza dell’essere umano, e la travalica. Qualcosa che non si può ritenere forse strettamente inerente la religione, ma non si spoglia del tutto da un "sentimento" indeterminato di “religiosità” nel senso più lato, ovvero del legame a una realtà che in quanto “supera” la nostra finitezza, è trascendente. In questo senso, non vi è forse una deroga alla laicità assoluta? Ecco perché penso che un film che proponga una simile visione non possa essere considerato laico in senso stretto. Ciononostante, desidero dirlo chiaramente, Hereafter rimane di certo uno dei film più laici che io abbia mai visto. Anche perché pone il dubbio sull’aldilà in termini prettamente positivistici e assolutamente scientifici. E forse è proprio questo il punto.
Ora, però, la domanda è: qual è il messaggio del film? Ammesso di volerne cercare uno, s’intende. C’è un messaggio pre-confezionato? Forse. E forse è quello che abbiamo finora sviluppato. O magari si ha il diritto, e da spettatore intendo arrogarmene, di individuarlo in autonomia.
Il protagonista, il giovane sensitivo americano (Matt Demon), nel momento in cui tocca una persona, “vede” le immagini dei defunti, e apparentemente parla con loro. Per rappresentare questa funzione di tramite fra il morto e il  sopravvissuto, Eastwood elargisce solo immagini vaghe e confuse. Fotogrammi dinamici, al limite della riconoscibilità dei volti. Con intelligenza, non ci fa vedere che ombre, flash, e per di più, completamente muti.
Allora, l’ipotesi che mi piace proporre è che il sensitivo non stia affatto osservando l’aldilà, ma bensì l’aldiqua. Grazie al suo dono, il protagonista sembra semplicemente capace di entrare in risonanza con la parte più segreta dell’essere umano. Quella in cui è custodito il ricordo profondo dello scomparso. Un ricordo che non a caso il film propone come immagine confusa, vaga, non identificabile, quasi non fosse solo (o affatto) un’immagine visiva, ossia una figura dai contorni precisi, ma qualcosa di più complesso, sottile, inafferrabile e indescrivibile; qualcosa che il linguaggio verbale non è sufficiente a connotare. Tutto, nel modo in cui le scene delle “sedute” sono rappresentate, sembra concorrere a questo fine: le frasi che il defunto pronuncia sono esclusivamente prodotte dal sensitivo (a differenza di quasi tutti i film del genere) e nella totalità dei casi ricalcano quello che il sopravvissuto pensa del defunto o gli attribuisce, come se anche quelle parole fossero semplicemente ciò che il sopravvissuto volesse sentirsi dire dallo scomparso, ovvero come fossero una parte di quel ricordo, di quell’immagine sepolta nell’inconscio, con cui il sensitivo sembra in grado di entrare in contatto.
È forse questa la sua vera dote: entrare in risonanza con le immagini inconsce del sopravvissuto. Non a caso, ha bisogno di toccare il sopravvissuto, accedendo alla sua mente. Il sensitivo ci spiega che ha sviluppato  il suo potere in maniera casuale e involontaria, ossia in seguito a un’encefalite e al relativo intervento chirurgico, come se in qualche maniera misteriosa e inspiegabile, le capacità di comunicazione del suo cervello fossero state incrementate.
L’ipotesi che trovo stimolante è quindi che si sia voluto dire, latentemente, che le “visioni” del mondo dei morti non sono altro che le immagini dell’inconscio dei vivi.  In tale prospettiva il sensitivo del film non sarebbe che un uomo dalle capacità, diremmo volgarmente, telepatiche. Persino alcuni passaggi della sceneggiatura sembrano confermare questa ipotesi: quando il morto “comunica” le sue volontà, il sensitivo sembra parlare a ruota libera. A tratti pare quasi che stia inventando tutto, talora per non scontentare o deludere la persona che ha di fronte; inoltre, nella prima seduta con un collega di suo fratello che vuole a tutti i costi evocare la moglie defunta (la scena che magistralmente apre il film gettando lo spettatore nell'insofferenza del protagonista per il suo stesso potere), il sensitivo cita una donna (Virginia) che la defunta non avrebbe alcuna importante ragione di ricordare a suo marito, ma qualche istante dopo si scopre che invece questa donna era importante per lui, il sopravvissuto (che se ne era segretamente innamorato). Ovvero, era un suo ricordo e non un suggerimento della defunta.
Proseguendo in questa chimerica e presuntuosa ricostruzione delle nascoste intenzioni dello sceneggiatore e del regista, si potrebbe arrivare a dire che il film sostituisce, una volta per tutte, all’infinito mondo ultraterreno, l’infinito mondo interno dell’essere umano.
Laddove questa fantasiosa interpretazione fosse corretta, ritengo che ci troveremmo di fronte a una vetta autentica di purissimo e insuperato umanesimo laico.
Certamente ci sono elementi che ostacolano questa interpretazione: fra tutti, quello più smaccatamente evidente è rappresentato dalle parole messe in bocca alla dottoressa svizzera cui la giornalista francese si rivolge nella sua ossessiva ricerca sull’aldilà: parlando dei tanti  individui miracolosamente scampati alla morte che come lei hanno vissuto esperienze di “pre-morte”, la dottoressa afferma “… questi uomini erano tutti privi di conoscenza, ovvero in uno stato in cui è noto che il cervello umano non è in grado di creare immagini”.
Il punto è proprio questo: perché non pensare invece che l’esperienza di pre-morte non sia altro che una creazione particolarmente potente di immagini a livello inconscio, con chissà quale deformazione della percezione temporale? È ben noto che ciò accade anche nei sogni, che sono appunto immagini create da soggetti “privi di conoscenza”. Ed è assodato che la creazione di immagini avviene a vari livelli di perdita di coscienza, dal  più ovvio, appunto il sonno, alle condizioni prodotte tramite anestesia generale.
Conosco ormai varie persone ben più qualificate di me, che forse (sottolineo il forse) direbbero che quell’affermazione, non a caso messa in bocca alla scienziata organicista svizzera, rientra nella definizione di “negazione", e come tale, nulla toglie all’assurda coerenza del castello di ipotesi con cui vi ho tediato. Al contrario.
Come non soffermarsi, in ultimo, sulla geniale scena del finale? Quando il protagonista riesce a rintracciare la donna di cui si è innamorato (la bella giornalista francese), la sua ultima visione è quella di un appassionato bacio fuori dal tempo, che non ci è dato sapere se sia premonizione di sensitivo o, più probabilmente, fantasia umana di uomo innamorato, che vede finalmente davanti a sé una vita degna da vivere, e sogna a occhi aperti la donna che vuole per sé, separandosi per sempre dalle immagini di coloro che sono defunti.
Un film da non perdere, comunque la pensiate.

Nessun commento: